Ti ripeto l'esortazione di (...) ordinare ad alcuni di non insegnare dottrine diverse e di non occuparti di favole e di genealogie senza fine, le quali suscitano discussioni invece di promuovere l'opera di Dio, che è fondata sulla fede (1 Timoteo 1,3-4 )

 

 

Care sorelle e cari fratelli,

la prima Timoteo è una lettera di istruzioni su come impostare la vita della chiesa. Il primo argomento che tratta, in questi versetti iniziali, è come dev'essere affrontata la diversità all'interno della chiesa.

Ad una lettura immediata il testo dà una risposta semplice e netta a questa domanda: c'è una dottrina vera e chi ne insegna di diverse è nell'errore. Anzi, le altre dottrine sono favole che suscitano discussioni senza fine, dannose per la chiesa. Storicamente questo testo è stato preso molto sul serio, nel suo significato immediato, e le diversità, teologiche e non solo, sono state affrontate con condanne, esclusioni, persecuzioni, guerre di religione.

Vorrei azzardare un'altra lettura di questo testo, stimolata da altri testi paolini che mettono in luce positiva la diversità nella chiesa (per es. 1 Corinzi 12). Partiamo dal fondo per risalire man mano verso l'inizio del nostro testo. Se il fondamento di tutto è la fede, dobbiamo riconoscere che l'esperienza della fede cristiana è diversificata; basta riunire un gruppo di credenti e far loro raccontare la loro esperienza per rendersene conto. L'opera di Dio, che sulla fede è fondata è in realtà, nel testo originale, l'economia di Dio, cioè la gestione della casa, potremmo dire il progetto che Dio attua per l'umanità, l'allenamento, il percorso formativo cui sottopone i credenti. Il compito della chiesa è allora la gestione della diversità delle esperienze di fede, orientandola al progetto di Dio. A questo punto, le discussioni, che il testo sembra condannare, possono essere intese in senso positivo, come confronto tra diverse esperienze di fede, come ricerca comune.

Le discussioni sono suscitate dalle genealogie e dai miti (miglior traduzione del termine favole). Queste espressioni possono essere intese come il racconto delle radici, le storie, l'immaginario, le tradizioni con cui ogni gruppo di credenti rappresenta la propria fede. Si tratta di elementi necessari e positivi, a condizione che vengano letti con spirito critico e che si riconosca che anche quelli degli altri credenti, come delle altre chiese, hanno valore, non meno dei nostri.

Ma allora, insegnare dottrine diverse, letteralmente insegnare diversamente, è veramente un problema così grande? Sì, se si pretende che la propria dottrina sia l'unica giusta. No, se si riconosce la parzialità del proprio insegnamento e lo si colloca in un dialogo costruttivo con gli altri. Uno dei punti chiave della nostra “genealogia” protestante è proprio la libertà di interpretazione, il libero esame, l'idea che tutti i credenti sono chiamati a confrontare la propria esperienza con il testo biblico, nello spirito del ritorno, sempre necessario, a Gesù Cristo. Coerentemente con questo caposaldo della Riforma, noi oggi ci possiamo permettere di riconoscere anche agli altri credenti e alle altre chiese il diritto-dovere di leggere la Bibbia a partire dai loro presupposti, e dalla loro identità. Noi continuiamo a coltivare il nostro modo di credere – cui teniamo fortemente – ma rispettiamo quello degli altri e cerchiamo il dialogo con loro, nella convinzione di avere un contributo importante da dare all'economia di Dio, ma riconoscendo al tempo stesso che è Suo il compito della gestione della casa, nella quale siamo in tanti ad abitare.

Che la grazia, la misericordia e la pace di Dio siano con noi. Amen.
 

Daniele Bouchard

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