Culto della Riforma 2012

(GALATI 5, 1 - 6)     

 

Care sorelle, cari fratelli,

possiamo ammettere che ci riempie di orgoglio, di un certo senso di superiorità il fatto che, mentre i cattolici festeggiano i Santi e portano crisantemi sulle tombe dei loro cari defunti, noi ricordiamo la Riforma del ‘500? La Riforma è un evento, senza il quale non si può capire la storia, la cultura, la spiritualità dell’Europa, e noi, piccola chiesa protestante dell’Italia cattolica, facciamo parte di questa storia importante. Ricordare però ha senso, se quello che ricordiamo in qualche modo ci aiuta a comprendere e ad affrontare meglio il presente che stiamo vivendo. Quindi la domanda: ricordando la Riforma del ‘500, che cosa vogliamo ricordare? Che cosa ci aiuta a comprendere meglio il momento storico che stiamo vivendo e a agire di conseguenza come credenti e come chiese? Ricordiamo il desiderio di emancipazione che emerge dalle varie adesioni alla Riforma, dai principi tedeschi, passando per le città libere dell’Impero fino ai contadini delle vallate alpine? L’etica protestante con il suo rapporto positivo con il mondo, con il suo spirito imprenditoriale che ha contribuito allo sviluppo dell’economia capitalista? La cultura protestante che ha liberato il pensiero dalle catene dei dogmi, ma a volte anche dalla presenza di Dio, contribuendo alla formazione di una cultura ateista, secolarizzata, materialista?

Vorrei proporvi questa mattina una riflessione che parte dagli inizi della Riforma, da quello che ha preoccupato Martin Lutero, che lo ha spinto ad agire. Tutto inizia dalla preoccupazione del posto giusto della persona di fronte a Dio, dalla preoccupazione per la propria partecipazione alla salvezza di Dio, dalla domanda: come posso essere certo che Dio usi grazia nei miei confronti?. L’essere umano, secondo la teologia del tardo medioevo, non era mai a posto nei confronti di Dio, ma doveva continuamente agire, fare, pentirsi per correggere il tiro. Ma più fai, più pratichi la penitenza, più ti vengono i dubbi, se quello che fai è sufficiente o se è sempre e comunque troppo poco e non risolvi nulla.

Questa preoccupazione di Lutero è per noi che viviamo 500 anni più tardi superata? Dietro la preoccupazione di Lutero per la partecipazione alla salvezza di Dio si nasconde la ricerca della serenità, della pace, del senso, della felicità della propria vita, ricerca che tutti gli esseri umani, credenti e non credenti condividono. Noi esseri umani, Martin Lutero, l’uomo del ‘500 come noi, abitanti del mondo del benessere, sappiamo che non possiamo essere i garanti della nostra serenità, della pace e del senso della nostra vita. Il successo della nostra vita, la nostra felicità sono fragili e continuamente minacciati, perché tutto dipende soltanto in parte da noi. Quindi la fonte della nostra pace, la fonte di senso della nostra vita, dev’essere qualcosa che le vicende della nostra vita non toccano così facilmente. Per il credente, questa fonte è Dio, il non credente trova questa fonte in delle idealità, dei valori, che alimentano la sua vita, guidano le sue scelte, gli danno forza e coerenza di fronte alle difficoltà. Ma che cosa succede, se Dio non c’è? Se, come nel caso di Lutero, nasce il dubbio, se Dio è veramente fonte di salvezza e di senso che dà una prospettiva, una direzione alla mia vita, o se non è piuttosto un Dio implacabile nella sua giustizia nei confronti delle mie debolezze, incoerenze e difficoltà? Se, come oggi ho ogni tanto l’impressione, molte persone hanno perso il rapporto con Dio (cioè non l’ateo) e si trovano sole di fronte alle difficoltà o alle tragedie della loro vita e del mondo in cui vivono e poi chiedono: “Che razza di Dio è un dio che permette queste sofferenze, queste ingiustizie, queste tragedie”?

Lutero dovette fare la terribile esperienza che la prassi della penitenza non gli procurava la certezza della grazia e della bontà di Dio. Lutero pregava, vegliava, digiunava, si flagellava, e più faceva penitenza, più cresceva in lui la paura della giustizia di Dio. E poi doveva assistere al fatto che la Chiesa offriva come soluzione per quello che per lui era il tormento della sua vita, la soluzione facile: l’indulgenza, con la quale ti compri un posto nel paradiso. La vendita delle indulgenze fu quel grande affare per il papa e per l’arcivescovo di Magonza, perché la gente era tormentata dagli stessi dubbi di Lutero (cioè Lutero non era un pazzo particolare). Alla gente nel suo tormento, la Chiesa offrì la soluzione facile, e gli affari andavano a gonfie vele, quando venne introdotta la possibilità di comperare delle indulgenze anche per i cari defunti, per liberarli dalle pene del purgatorio. Di Lutero possiamo criticare tutto quello che vogliamo, ma era un credente serio e un bravo teologo. Per lui questa vendita delle indulgenze era un inganno, una bestemmia. Dio che viene venduto a Mammona, l’opera di salvezza di Gesù Cristo viene monetizzata in una specie di azioni con cui ci assicuriamo la nostra partecipazione al capitale di salvezza di Dio. La fede non può essere una questione di denaro, la grazia di Dio non può essere comperata, né con denaro, né con esercizi spirituali di penitenza, né con opere di bene. La grazia si chiama grazia, perché è gratuita, è dono.

Avvenne la svolta nel pensiero di Lutero. Il giusto per fede vivrà (Romani 1,17). Non il giusto, che crede cercando la propria giustizia secondo la legge davanti a Dio, vivrà, ma il giusto per fede, il giustificato per fede, colui che si fa donare la giustizia da Dio, vivrà. Non il penitente, che si castiga con le sue opere di penitenza, riceverà la grazia e la salvezza, ma il credente, colui che ha afferrato che Dio in Gesù Cristo ha già fatto tutto e che egli non deve fare più nulla per la sua salvezza, deve soltanto farsela donare, deve soltanto accoglierla con riconoscenza. Cioè: il peccatore non deve pentirsi, ma deve convertirsi, non aggiustare il tiro, ma cambiare rotta, cominciare a vivere nella direzione opposta.

Nasce qui la contrapposizione tra fede e opere, nasce qui il conflitto con la Chiesa di Roma. Lutero non ha inventato la giustificazione per grazia, non ha inventato il contrasto tra salvezza per grazia e salvezza per opere (della legge), ma ha trovato queste concezioni nella teologia dell’apostolo Paolo, come dimostra chiaramente il testo di Galati che abbiamo letto. Il punto è: l’essere umano contribuisce attraverso le sue opere, il suo comportamento, i suoi esercizi spirituali alla sua salvezza presso Dio o no? L’essere umano può, attraverso le sue opere cattive, annullare la salvezza che Dio ha destinato a lui? Lutero risponde di no a entrambe le domande.

Noi siamo protestanti, cioè figli e figlie del pensiero di Lutero e degli altri riformatori e ne siamo orgogliosi. Ma dobbiamo ammettere che la concezione della giustificazione per grazia è scomoda e complicata, in particolare, se la applichiamo in modo coerente. La giustificazione per grazia ci libera dal peccato, senza che noi dobbiamo o possiamo fare qualcosa per questa liberazione. Di conseguenza, non hanno senso esercizi di penitenza per suscitare in Dio clemenza nei nostri confronti, non hanno senso opere di bene per rendere Dio favorevole a noi, perché Dio ha già dimostrato una clemenza oltre ogni nostra aspettativa, si è già dimostrato favorevole nei nostri confronti in Gesù Cristo, più di quanto come peccatori potevamo sperare. Quindi siamo liberi dal peccato, liberi dalle opere prescritte per metterci in rapporto con Dio (opere della legge).

Forse oggi cominciamo a mettere in pratica con un po’ di coerenza in più questo centro della nostra fede protestante, e siamo accusati di mancanza di rigore, di relativismo etico da altre chiese (e non soltanto dalla Chiesa cattolica). A mio avviso, proprio in quello che altri chiamano relativismo etico, c’è nella nostra riflessione e nella nostra prassi il tentativo di mettere in pratica la giustificazione per grazia, il tentativo di mettere in correlazione la nostra predicazione e la nostra prassi di chiesa e di vita. Di fatto il protestantesimo storico non è stato molto coerente. Da Gesù Cristo siamo liberati dalle opere della legge, ma la coppia che litigava in pubblico, veniva esclusa dalla Santa Cena nella Ginevra di Calvino, la persona che usava parolacce, veniva convocata dal Consiglio di chiesa e minacciata di espulsione, la gestrice di una bisca illegale veniva espulsa dalla chiesa, la ragazzina che andava a ballare prima di essere confermata, veniva mandata a casa con gli schiaffi del pastore, poi delle ragazze madri o dell’omosessualità non ne parliamo neanche.

E’ molto più facile gestire una chiesa, vivere in una chiesa in cui vige una legge, che gestire una chiesa in cui si vive la libertà del cristiano, in cui c’è bisogno di tessere delle relazioni, in cui guardiamo le singole situazioni, in cui ci facciamo carico dell’altra persona e non ci nascondiamo dietro leggi e casistiche. Purtroppo anche le chiese della Riforma non hanno resistito alla tentazione di trasformare la libertà in Cristo in legge, forse non erano in grado, forse il momento storico non permetteva una prassi diversa. Sono passati quasi 500 anni dalla scoperta (riscoperta) teologica di Martin Lutero, dalla scoperta (riscoperta) della libertà del cristiano, che è libertà dal peccato, libertà dalla legge e libertà all’amore che cerca il bene dall’altro, libertà all’incontro con l’altra persona nello spazio creato dalla grazia di Dio. Io credo che ci muoviamo nella direzione giusta (difesa dei diritti degli immigrati, accoglienza nelle nostre chiese, accoglienza degliomosessuali). Su certi terreni muoviamo i primi passi, ma io sono convinto che la direzione è giusta. Amen.  

Klaus Langeneck 

 

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