Aprile 2019

Tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste,
tutte le cose pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama,
quelle in cui è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri.
Le cose che avete imparate, ricevute, udite da me e vedute in me,
fatele; e l’Iddio della pace sarà con voi.
(Filippesi 4,8-9)



Care sorelle e cari fratelli,

mai come in questi tempi tutto sembra dominato dalla velocità. Tutto accade rapidamente, anche e soprattutto in tema di notizie; basta un clic sul web ed in pochi attimi sappiamo ciò che accade in tempo reale in ogni parte del globo. Un altro clic e comunichiamo in videochiamata a migliaia di chilometri. Ce lo consente, oggi, la tecnologia.

L’apostolo Paolo è chiuso in una cella: libero a Dio, ma prigioniero agli uomini. Egli ha tempi assai più dilatati rispetto ai nostri per poter pensare, riflettere, meditare, pregare, scrivere, esortare, insegnare, spedire, ricevere e rispondere a quei fratelli ed a quelle comunità dalle quali è forzatamente separato. Paolo non invia mail, Epafrodito – nello specifico – è colui che gli fa giungere notizie circa la comunità di Filippi. Tuttavia l’apostolo Paolo, pur fisicamente separato dalle sue amate comunità, non intende rinunciare a portare avanti la propria missione esortativa e di sostegno di quelle comunità, al servizio della Parola di Dio. E ciò con una forza ed una determinazione tali da far avvertire la sua stessa presenza in mezzo a loro, efficace ed avvolgente al punto, ad esempio, da “rimettere in riga” tutti coloro che, nel tentativo di personalizzare l’Evangelo, miravano a creare fazioni e correnti, per così dire, “alternative” all’Evangelo stesso e alla imprescindibile centralità di Cristo, Signore e salvatore.

Ma è su un termine specifico del testo che vorrei soffermarmi: Paolo usa un verbo che, posto alla fine di una sequela di azioni dalla portata infinita, si tramuta in uno specifico comando: “ fatele”, proprio in riferimento a quelle stesse azioni. Non basta per Paolo che su tutte quelle cose si sia applicato il nostro pensare. Tutte quelle cose devono scaturire in vita vissuta: in cose da fare, sul proprio esempio personale.

“Tutte quelle cose” egli sa bene di averle fatte proprie e poste a se stesso come bandiera da seguire sino alle estreme sorti a lui riservatigli dal Signore stesso. Ma egli non cessa di sottolineare che “tutte quelle cose” costituiscono un modello di vita che scaturisce solo ed esclusivamente dal rinnovamento della fede che solo la forza rigeneratrice della Parola del Signore può concretizzare nella novità di vita di ogni suo figlio. Una forza che raggiunge il credente ed è in grado di agire in qualunque sua situazione: di presunta o conclamata prigionia, di presunta o conclamata libertà. Una potenza – quella della Parola – unica in grado di abbattere ogni barriera, di oltrepassare anche le più spesse mura di una qualunque prigione e di sopperire a qualunque debolezza.

Paolo, di certo già minato nella salute, ridotto al silenzio ed all’isolamento, potremmo pensarlo come un uomo perdente, vinto, fiaccato nel corpo e nell’animo, ormai lontana ombra e lontano parente di quel Saulo che con spavaldo vigore impartiva comandi e terrorizzava chiunque ed ovunque di lui ne giungesse la fama. Ma la vera fede di Paolo la troviamo proprio quando, conscio della sua debolezza, di essa sa fare la sua forza. “Ecco, quando io sono debole, allora sono forte” (2 Cor. 12,10).

Dobbiamo essere sinceri: la nostra debolezza ci fa sentire spesso del tutto impotenti. Ci guardiamo intorno e nel maggior numero dei casi, agghiacciati dalle ingiustizie e dalle atrocità che ci giungono da tutto il mondo, ma che sempre più spesso raggiungono i nostri marciapiedi e salgono anche sui nostri pianerottoli, finiamo per chiuderci in un personale isolamento, divenendo – allora sì – realmente prigionieri di noi stessi, delle nostre paure e relegati ad una sterile vita di cella.

Ma quel buon combattimento che l’apostolo Paolo esprime in quasi tutte le sue epistole con imponente forza esortativa ci ricorda invece che l’essenzialità del vivere del cristiano sta proprio nel coraggio della testimonianza, da tradurre in concreti atti resi liberi dall’abbandono alla potenza dell’Evangelo. E ritengo non di secondaria importanza l’uso che nel nostro testo vien fatto del plurale: “fatele”, cosicché quella esortazione al fare viene rivolta dall’apostolo ai “fratelli” come ad un corpo unico, affinché nessuno ne sia escluso, ma, al contrario, come un invito, comando o esortazione rivolta a tutti, collettivamente e comunitariamente.

E anche a noi, sia come singoli, sia come comunità di credenti, risuona ancora quel “fatele”, ossia quel monito a vivere i nostri giorni con l’autentico vigore evangelico di chi, pur nella consapevolezza della propria debolezza, è chiamato a testimoniare della potenza dell’Evangelo operando “tutte quelle cose” che in una sola parola definiamo amore, a sola gloria di Dio.

Amen.

David Giannotti





 

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