Ora che avete conosciuto Dio, o piuttosto che siete stati conosciuti da Dio, come mai vi rivolgete di nuovo ai poveri e deboli elementi di cui volete rendervi schiavi di nuovo? Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera; ma quello della schiava nacque secondo la carne, mentre quello della libera nacque in virtù della promessa. Ora, fratelli, come Isacco, voi siete figli della promessa.
(Gal 4,9.22.28)

 

Fratelli e sorelle,

come spesso succede nelle sue epistole, anche in questo caso l’apostolo, sembra essere - passatemi l’espressione - dotato di una “personalità multipla”: troviamo infatti il “Paolo pastore”, il “Paolo esegeta” e, infine, il “Paolo teologo”. Nei nostri versetti convivono tutte e tre queste “personalità”, anche se, ovviamente, questi tre caratteri sono inscindibili l’uno dall’altro.

Il “Paolo pastore” è sinceramente preoccupato: teme di essersi affaticato invano per i Galati, poiché la loro comunità - o almeno parte di essa - sembra voler rendersi schiava di deboli e poveri elementi, ossia della Legge. Non solo, essa vuole rendersi schiava di nuovo poiché, prima dell’arrivo di Paolo, i Galati erano pagani, dunque schiavi della superstizione e di falsi dei.

Ecco dunque intervenire il “Paolo esegeta”: egli oppone alla Legge professata dagli “agitatori” che infestano la comunità galatina una sua personale interpretazione di Genesi 21. Dunque, come dice egli stesso, risponde alla Legge con la Legge. Certo, la sua interpretazione di Genesi, la sua esegesi allegorica”, è sicuramente ben lontana da quella che ci insegnano oggi alla facoltà valdese di teologia (per nostra fortuna…), ma altrettanto sicuramente non possiamo giudicarla in base ai nostri criteri contemporanei. Quella di Paolo inoltre non è solo un’interpretazione allegorica, ma anche e soprattutto un midrash di Genesi 21. Un midrash è una descrizione della Scritture, una sorta di parafrasi, ed è interessante osservare come il sostantivo midrash derivi dal verbo darash, che significa “ricercare, scrutare, esaminare, studiare” ma anche "raccontare". Dunque, più che sulla sua legittimità esegetica, concentriamoci su questo “ri-raccontare” la storia di Genesi 21. Questo “nuovo racconto” che l’apostolo fa, vive principalmente di contrapposizioni, di contrappunti: da una parte troviamo la schiava Agar e la sua discendenza, a partire naturalmente da suo figlio Ismaele. Dall’altra parte c’è invece la donna libera Sara e suo figlio Isacco.

Ora però, al di là della pur interessante meta-esegesi che possiamo fare del brano, cosa vuole davvero dire Paolo ai Galati (e a tutti e tutte noi)? Egli in primis vuole contrapporre la carne alla promessa e allo Spirito, dunque, in definitiva, la schiavitù alla libertà. L’apostolo ricorda alla comunità di cui fu pastore che tutti e tutte loro sono liberi in Cristo: voi siete figli della promessa e della donna libera, gli rammenta. Perché dunque, gli chiede, volete essere nuovamente schiavi?

A mio modesto avviso, il problema dei Galati descritto da Paolo lo si potrebbe anche definire con l’espressione “eccesso di zelo” o, ancor più precisamente, “l’eccesso di zelo dei neofiti” (e delle neofite). Assomiglia a quello che può succedere con alcuni nostri fratelli e le nostre sorelle di chiesa che, provenendo da altre confessioni cristiane o dall’ateismo, si avvicinano alla nostra chiesa. Spesso costoro, anche se mossi dalle migliori intenzioni, si macchiano di questo “eccesso di zelo”, magari appuntandosi al bavero della giacca, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, una croce ugonotta. In fondo si tratta di un meccanismo molto umano: pensiamo che, una volta raggiunta un’identità (un’identità che - si badi - abbiamo liberamente scelto, il più delle volte con fatica), sia quasi un nostro dovere palesarla con un segno visibile, un simbolo esteriore che dica agli altri e ancor di più a noi stessi “io, a partire da oggi e per il resto della mia vita, sono questo”.

Ma la libertà che Dio ci ha donato per mezzo della croce e della resurrezione di Gesù, ci ricorda l’apostolo, non è un appiglio che abbiamo a nostra disposizione ogni qual volta sentiamo di averne bisogno per affermare o ribadire a noi stessi e al prossimo la nostra, anzi le nostre, fragili identità. Su questo ci illumina con la “precisazione” che fa al versetto 9, quando prima scrive ai Galati ora che avete conosciuto Dio, per poi “correggersi” scrivendo: o piuttosto che siete stati conosciuti da Dio. Tutti noi, figli e figlie di Dio con e per Cristo infatti non siamo attori, non siamo “parte attiva”, e non possiamo partire dal lato sbagliato nella nostra relazione con il Signore. Il punto non è ciò che noi possiamo, vogliamo o sentiamo di dover fare, anche se mossi dalle migliori intenzioni. La risposta sta piuttosto sul lato opposto: ciò che Dio ha fatto in Cristo e come Egli lo ha fatto per noi.

Rispondere all’evangelo di Cristo consiste nell’affidare se stessi all’amore di Dio, nient’altro. Scriveva il sociologo e teologo Jacques Ellul: “Dal punto di vista umano o delle strutture sociali o delle forze tecniche e politiche la libertà che viene data in Cristo è insicurezza radicale. Per la nostra sola certezza c’è Cristo”.

Amen.

Pier Giovanni Vivarelli

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